Katarte / Mafai – Kounellis. Pittori della libertà

Civilta delle macchine, la condanna, 1960, (part.)

Mafai – Kounellis. Pittori della libertà

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Museo Carlo Bilotti, Roma

Fino al 1 giugno 2014

“Mi rivolgo a quelle persone (amici) che hanno amato la mia pittura e non riescono a giustificare questo mio nuovo modo di rappresentazione. A parte il fatto che l’arte non può ripetersi e va in cerca di nuove invenzioni e di nuove realtà è dovere suo lasciare dietro i propri cadaveri, sarebbe stato questo proseguire in quel compiacimento tonale, nel gusto di mura morte e di fiori morti? Ancora ho qualche anno per essere vivo e per cercare una nuova concezione del tempo e dello spazio e della verità. Raggiungere un impegno al di fuori della cronaca e del quotidiano che immiserisce e riduce l’uomo sempre più oggetto e sempre meno soggetto, saper rinunziare è un poco voler vivere, uscire dal cellofan è un po’ respirare.” Questa testimonianza, tratta dal diario di Mario Mafai  (1902-1965), esprime l’essere e la totalità dell’artista in quanto tale.

Autoritratto, 1927
Autoritratto, 1927

Pareti di lamiere a forma di un letto a due piazze fanno da cavalletto-installazione alle numerose tele del maestro come un ossequio all’artista che per primo vide nel giovane greco la luce dell’Arte. Naturale conclusione, una staffetta di un’intesa sbocciata nel 1960, quando uno sconosciuto studente dell’Accademia di Belle Arti di Roma inaugurava il suo primo vernissage nella gloriosa Galleria della Tartaruga. Durante l’inaugurazione si avvicinò all’esordiente artista di origine greca, un giovanissimo Jannis Kounellis, un famosissimo maestro che gli sussurrò all’orecchio: Tu sei un pittore.

Mario Mafai era quel maestro, e con quel riconoscimento certificava lo scambio del testimone a Kounellis, una eredità, una pesante meravigliosa responsabilità che si è impressa nella sua spontanea inclinazione, anche quando l’artista greco divenne un protagonista dell’arte Povera più antipittorica. L’evento. “La libertà del pittore” celebra il sodalizio Mafai-Kounellis con una quarantina di tele di Mafai dal 1928 al 1965, ponendo un particolare accento sul periodo astratto dell’artista dal 1957 al 1965, anno in cui Mafai scompare improvvisamente dalla scena artistica italiana e internazionale.

Tramonto sul lungotevere, 1929, olio su compensato
Tramonto sul lungotevere, 1929, olio su compensato

Mario Mafai, pittore romano, ha dato un grandissimo apporto all’ambiente culturale italiano del XX secolo. Lui ha dato vita alla Scuola Romana di Via Cavour, con la triade Mafai-Raphael-Scipione, un covo per artisti, letterati e intellettuali, del tutto divergenti dal clima di “Ritorno all’ordine” imperante nel primissimo dopoguerra che osteggiava la visione dell’arte d’avanguardia e osannava allo stile tradizionale. Nel suo esordio artistico Mafai vive dentro i paesaggi, le figura, le  nature morte, viaggiando nelle sue tele verso le periferie, le vedute di Fiumicino, così come i fiori e i ritratti con esplosioni di rosso, di viola, degli ocra deteriorati a terra smorta. Le pennellate gravano sulla tela come timorose, mostrandoci  un artista turbato, tormentato, così ansioso nel controllare la scelta di essere uomo di sincerità ma contemporaneamente in coscienza presente ai tempi. Dal 1957 Mafai rinnega coraggiosamente lo stile figurativo che aveva segnato il suo lessico artistico sino a quel momento e mette in atto una temeraria frantumazione dei colori e delle forme giungendo al pianeta dell’astrazione.

Una radicale metamorfosi, come se avesse rigettato tutta la sua pittura precedente, che parte della critica e dei collezionisti a lui più legati, non gli ha risparmiato aspre critiche e accuse di “tradimento”. “Io non sono un altro. Ho soltanto rinunziato all’attaccamento affettivo verso le cose, alle piacevoli tessiture, ai pittoricismi squisiti; sono diventato più libero, più nudo io”. Cosi risponde perentoriamente lo stesso Mafai a chi aveva messo in dubbio l’onestà della sua audace scelta.

Nessun tradimento ma una riduzione della pittura alla pura essenzialità, documentata in mostra da un consistente nucleo di circa 30 opere appartenenti al periodo dell’Informale e alla serie delle “corde” sottolineando il valore del passaggio che quest’ultimo ha segnato nel contesto culturale italiano. Un passaggio valoroso, fatto di coerenza con i propri ideali e di coraggio nel preferire le più intime idee e passioni alla convenienza e al successo indiscusso.

Civilta delle macchine, la condanna, 1960
Civilta delle macchine, la condanna, 1960

Kounellis rende omaggio a suo modo alle opere di un uomo coraggioso, anticonformista, refrattario alla pomposità del ventennio e capace di rimettersi in gioco a 56 anni suonati, abbandonando un passato che pure gli aveva tributato onori e riconoscimenti per lanciarsi in nuove avventure creative. Sostenuta dal Centro Studi Mafai Raphael, la mostra conferma che i cambiamenti di stile del suo percorso sono stati sempre dettati da una profonda necessità interiore. Lo dicono bene queste parole del suo Diario (1955): “Un nuovo rapporto fra l’uomo e l’uomo e la società, soltanto questo può salvare la decadenza di oggi”. Parole che risuonano in quelle di Kounellis: Io vedo un Mafai eroico. Un uomo che ha sofferto molto, che è stato anche vittima, ma che è pure il simbolo della ripresa di una cultura umanistica. Lui è veramente un intellettuale credibile. Ed anche oggi, come nel secondo dopoguerra, dobbiamo ricominciare daccapo, lottare contro il degrado morale che ci circonda”.

Come ha ricordato Piero Dorazio diversi anni fa, “Mafai fu, particolarmente per noi giovanissimi, negli ultimi anni tragici del Regime e in quelli oscuri del dopoguerra, l’unico esempio da emulare”. Fra le opere in mostra, non disposte in ordine cronologico per sottolineare l’unitarietà del percorso di Mafai, spiccano quelle della Scuola di via Cavour, come Tramonto sul lungotevere o l’Autoritratto ma anche quelle degli anni cinquanta, come Tetti e Cancellare la memoria. “In qualche modo – ci dice Bruno Corà, curatore della mostra – Kounellis ha preso ora il padre sulle spalle, sostenendo concretamente le sue opere. Quando incontrava Mafai egli vedeva il vero pittore, libero e sincero, con la puzza di trementina addosso”.  Il profondo legame fra Mafai e Kounellis, pur nella enormi differenze fra le rispettive ricerche, nasce anche sotto il segno del comune amore per Roma, una città difficile e bellissima, ma che è impossibile non amare.

Conclude il tutto una ricca ed esauriente sezione documentaria allestita al piano superiore curata dalla figlia del pittore, Giulia. Qui tra le tante foto che raccontano il Mafai uomo e pittore, tra tutti i cataloghi che raccontano le mostre e le opere, tra tutti i libri e locandine si viene colpiti da un autografo datato 4 febbraio 1965. Si tratta dell’ultima annotazione di pugno nel suo diario. Un sorriso e un’emozione nel riconoscere quella calligrafia, leggere quelle parole da cui si trae vita vera, recepita attraverso vocali e consonanti unite tra di loro, recepita attraverso gli occhi che leggono, vita che arriva dritta al cuore. “Stasera mi sento bene. Evviva. Evviva, lo spirito torna e la materia è sconfitta: non ho avuto fede. Male. Lo spirito ha vinto!”

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